Ancora su Tabù di Giordano Tedoldi


L’oscuro oggetto del desiderio

«A che serve leggere un libro, e conoscerlo a memoria, come è il mio caso, per innumerevoli capitoli, e poi chiudere gli occhi sulla vastità che schiude?».

Tabù di Giordano Tedoldi, uscito per Tunué, è un viaggio al termine, all’inizio della notte. È un tizzone ardente, una spelonca, una vetta immaginifica, una grotta, un monolito, un enigma. Ma è anche il mistero di un cuore che batte, perché ogni cuore batte diversamente e ha un proprio suono, unico e irripetibile. Indicibile, forse. Ricordo la sensazione che provai quando lessi I segnalati, il primo romanzo di Tedoldi, (Fazi, 2013). Ero come intossicato: stavo facendo un’esperienza totale. Qualcosa che non aveva a che fare soltanto con la lettura: tutti i miei sensi erano come frustati, messi in allarme, scossi. Sensazioni analoghe si stanno ora ripetendo. Sono come esaltato. Io sono un poco come Piero Origa, il protagonista del romanzo, eppure, al contempo, so di non essere Piero Origa. Ma la febbre di ardere, di vivere, di essere contaminato e contaminare, quella è propria di tutti noi esseri umani dotati di carne e di spirito. In eterno conflitto tra carne e spirito. Non l’ho ancora terminato, Tabù: negli ultimi giorni ho rallentato perché mi sono messo a risfogliare le pagine, a ragionarci. L’ho eletto a oggetto di studio: ho preso appunti, ho sottolineato, me lo sono portato dietro. Finché l’altra notte, avendo l’opportunità di osservare il cielo con il telescopio, ho pensato che Tabù è come Albireo, nella costellazione del Cigno, che sembra essere una stella sola e invece è un sistema binario con due stelle legate gravitazionalmente, di cui una è blu e l’altra è rossa. Nel panorama dei romanzi italiani contemporanei, Tabù non somiglia a niente. È una partitura di colori ambigua e incantevole, è il trionfo della lingua italiana finalmente liberata. Mi sembra di poter azzardare che pochi in Italia sappiano scrivere come Giordano Tedoldi: niente di tutto ciò che lui descrive esisteva prima perché è come se anche gli oggetti apparentemente più elementari diventino, sotto il suo sguardo, campi di forza magnetica (le tazze che Dolly dipinge e decora). Non c’è niente di rassicurante: ed è così che dovrebbe sempre essere, perché la letteratura non dovrebbe avere niente di rassicurante. Dovrebbe scuoterci, sorprenderci, abbattere qualsiasi certezza noi presumiamo di avere. Per cui, se cercate conferme, lasciate perdere di leggere Tabù. Il mondo è sommerso di libri mediocri: leggete quelli.

 

«Li vedevo tutti quanti i miei affetti, e amori, che piangevano di profilo, da un occhio solo, con un pianto muto. Uscito dal disordine di Xanadu, comprendevo quanto immenso è il vero disordine in cui siamo liberi di affogare. Basta solo di scegliere di rompere, e correre per sempre in una direzione, e da qualche parte non si arriverà. Mi distesi in un angolo della baracca, aspettando che spiovesse, con entrambe le mani in preghiera sotto un orecchio. Mi rannicchiai, mi sentii piccolo, mi sentii sminuito e abbandonato, ebbi compassione di me stesso e, come un’eco del precedente, liberai un pianto senza vergogna. Non avevo mai fatto nulla di veramente voluto. O forse sì, in una o due occasioni, ma erano cose talmente stupide, che c’era da vergognarsi di averle volute. Ero sempre stato strapazzato qua e là, in lotta contro tutti quelli che mi sembravano insinceri, falsi e arrivisti quando io, a modo mio, ero semplicemente il loro negativo, un altro momento del loro stesso pessimo umore. Arrivato alla mia età, in corsa verso i cinquanta, mi sentivo così nervoso con me stesso che nessun scatto di reni, nessun virile e sano riflesso d’orgoglio, poteva risalirmi dal cuore fino alla testa. Cuore e testa erano vomitati dall’odio, dalla rabbia. Se avessi avuto qualcosa con cui farmi male… (Sì che c’era qualcosa, pezzi di vetro, sbarre di ferro, lattine… quella fogna di posto era pieno di cose con cui farsi male, anche solo sbattere la testa contro un lavandino rovesciato, che stava all’angolo opposto a quello dove m’ero disteso, e che attirava il mio sguardo con cifrata insistenza.) Cominciai a darmi addosso coi pensieri, mancandomi i coglioni per farlo con le cose: Piero Origo, che tu fossi un disadattato l’hai sempre saputo, però la tua vita girava, c’era una musica,  un ritmo che di anno in anno mutava e tu lo ascoltavi, e accordavi le tue azioni. Sei andato a tempo, si può dire. Se per caso invece ti fosse capitato di fare il contrario, Piero Origo, cioè di dare tu il tempo, a che ritmo avresti battuto le mani? Visto che per te non vale nessun punto di riferimento, che sia il sole, l’educazione, l’origine, i nomi, gli altri, o l’amore. Nessun amore. Mai. Tu, Piero Origo, nella vita non hai amato mai. Tra madri, maestre, sorelle, bambine, figlie, allieve, nessuna ti ha mai conosciuto veramente e da nessuna ti sei fatta conoscere veramente. La colpa è anche loro, che si sono fidate. Che altro dobbiamo fare? chiedeva Danilo. E chi lo sa. Di sicuro piantarla, non scrivere sempre lo stesso libro come un idiota».

Fine della prima parte. O meglio, nella partitura del testo, fine della terza parte, eppure per semplificare scrivo prima parte perché è qui che si produce la prima lacerazione, quella che segna un passaggio di consegne: nella parte successiva, a dire “io” non sarà più Piero Origo, bensì un altro personaggio: Padre Eusebio Kuhn, un sacerdote cattolico della Congregazione di San Filippo Neri, che incontrerà Piero e sarà da lui contagiato. Ma facciamo un passo indietro perché io vorrei essere preciso, e per esserlo devo innanzitutto rettificare le mie stesse  imprecisioni. Non è del tutto vero che  il passaggio da un io narrante a un altro segni la prima lacerazione.  Nel romanzo la lacerazione è in atto da subito e coinvolge Piero, così come coinvolgerà Padre Eusebio, (così sì come sta coinvolgendo gli altri personaggi). E non solo: la struttura stessa del libro è pensata come somma di lacerazioni. Tra la prima e la seconda parte c’è uno strappo, e altrettanto tra la seconda e la terza. Altri direbbero: ellissi. Giacché passa del tempo, è normale ritrovare i personaggi leggermente spostati in avanti: nel mentre sono accadute cose che ci saranno svelate e ciò che non comprendiamo ci verrà in seguito chiarito. Può essere, certo. Ma non dobbiamo darlo per scontato. È vero che i poemi epici, la lettura dei romanzi, il cinema, le serie tv ci hanno reso scaltri nel riconoscere e accettare gli artifici adoperati. Ma dobbiamo stare attenti: una singola narrazione, pur ricorrendo a quegli artifici condivisi non può sperare di farla franca solo perché altre prima di lei le hanno aperto la strada. Ogni narrazione deve trovare dentro di sé ragione degli strumenti che utilizza.

Piero Origo è un professore di storia e filosofia in un liceo, ha una relazione con Dolly, che però è fidanzata con Marco, il quale sa di Piero e sembra essere rassegnato al triangolo. Questa di Piero non è una vera e propria infrazione. Non è ancora un tabù, si direbbe. Marco e Dolly non sono uniti dal sacro vincolo del matrimonio. Una notte, a una festa, Piero rivede Emilia, sposata con Domenico, a sua volta amico di Piero. Il fatto è che per Piero la vita ha senso solo in vista del possesso, ed egli non è disposto a fermarsi davanti a niente. Neanche al sacro vincolo del matrimonio. Neanche al sacro vincolo del matrimonio che unisce il suo miglior amico a una donna. Anzi, proprio per questo l’istinto di possesso di Piero si fa più totalizzante. Anche se a volte Piero – che dubita di tutto, anche della sua stessa forza eversiva – pensa di essersi inventato un migliore amico, Domenico, solo per soffiargli la moglie. E comunque, Piero è stato da sempre attratto da Emilia, creatura metà donna e metà divinità. Non oserebbe quasi toccarla, «ma per me» scriverà Piero, «l’unica vera evoluzione è quella di chi ama, nutrendo il sentimento e crescendo con lui, nella favolosa estasi di salire tutti i gradi fino alla caduta».

La caduta. Perché non si possono infrangere le leggi senza pagarne le conseguenze.

La seconda parte si apre con la seguente frase: «Di sopra, Marco continua a agitarsi accompagnando ogni rivolgimento con i sospiri di chi si dibatte tra sofferenze nel letto di morte».“Di sopra”. Perché sebbene la caduta sia già iniziata – e riguardi Piero, Emilia, Dolly – non ha lasciato illeso neanche Marco. Ed eccola allora la prima lacerazione temporale: sono passati anni e ora Marco e Piero, che pure erano rivali, vivono insieme, senza più né Dolly né Emilia. E non solo: Marco ha riportato una qualche invalidità da quando «una sera di quei quattro anni» (non sappiamo quale) «Dolly l’aveva fatto cadere giù dalle scale, inavvertitamente». Cogliamo adesso il valore della locuzione avverbiale “di sopra”. E, più in generale, la costruzione degli spazi nei quali si muovono i personaggi di Tabù. Analoga a quella de I segnalati, con la terrazza di Fulvia che dà sullo spiazzo dove alcuni ragazzini giocano a pallone, e da dove – dall’alto della terrazza – si abbatte la tragedia, mentre da ancora più in alto precipita in Fulvia il senso di colpa per quanto accade. La verticalità. La stessa della casa a due piani dove ora abitano Piero e Marco. La stessa che ritroviamo nel castello sul mare in cui Piero va a trovare Dolly, dopo che lui e Marco decidono di andare ognuno alla ricerca della donna amata dall’altro. Il castello sorge su un terrapieno contiguo alla spiaggia ed è costituito da un edificio a due piani con sulla destra una torre normanna e, accanto, una muraglia in rovina. Quando Piero si avvicina, riconosce la struttura, «o per meglio dire, ciò che ne resta», non per l’esserci già stato, ma per «come appariva, intorno all’ora del tramonto, in alcune sequenze affogate in reboante musica postromantica, in un discreto film gotico degli anni Sessanta».

La caduta è, insomma, sia fisica sia metaforica, morale. Catabasi. Catabasi dovuta al fatto di essersi macchiati di una colpa. Gli spazi costruiti sono verticali perché contengono in sé la possibilità della caduta, (il precipitare giù dalle scale, non a caso). La contengono da un punto di vista drammaturgico, architettonico, ingegneneristico. Come fosse un Buster Keaton rovesciato di segno, Giordano Tedoldi inventa ambienti al contempo spalancati nell’abisso e nell’empireo; ambienti saturi di ostacoli in cui è impossibile non inciampare. Ambienti che, come nelle slapstick americane degli anni Venti, alla fine perdono pezzi, crollano, collassano. Perché non sono solo gli esseri umani a sprofondare e/o a innalzarsi. Faccio un esempio: la torre del castello. A parte il fatto che essa non è quello che sembra, giacché nasconde una cisterna, più avanti, quando nella quarta parte del romanzo i personaggi torneranno in quel luogo, la torre non esisterà più, e neanche la cisterna e al suo posto ci sarà un pozzo, «come se la cisterna fosse sprofondata, interrandosi».

La terza parte produce un’altra lacerazione: è passato ancora del tempo, e Piero, Marco, Dolly, insieme ad altre donne e a Danilo, vivono nel castello sul mare, eletto a residenza di una vera e propria comune, ribattezzata Xanadu. Quando inizia questa parte, ci viene detto che a breve la comune compirà tre anni. È  lo stesso procedimento adottato nella seconda parte, quando ci veniva spiegato come in una notte di quei quattro anni Dolly avesse fatto cadere Marco giù dalle scale, innavertitamente, anche se poi quei quattro anni restavano comunque avvolti nella nebbia: qualcosa vi si distingueva, sagome dai contorni sfumati, accadimenti, le cui origini restano però confuse. Queste reticenze, questo trucco di sfumare i nessi temporali, introduce altri strappi, altre lacerazioni. Non è un artificio narrativo fine a se stesso. Ecco perché vale quanto sopra cercavamo di spiegare. Non è importante in questo romanzo unire i vuoti temporali tra le parti, trovare il filo che tutto lega, e che comunque c’è, ma considerare come ogni singola parte assomigli a uno scoglio di pietra lavica che emerge dal mare, e il cui abisso non è misurabile. Su questi scogli ci si può arrampicare e si può saltare dall’uno all’altro: e se si procede avanti si può approdare a un isolotto. Sempre che intanto non arrivi l’alta marea, perché altrimenti non si potrebbe tornare indietro. Il riferimento non è casuale giacché nel romanzo, poco lontano dal castello, c’è un isolotto con una chiesetta e dentro la chiesetta – una sorta di grotta di pietra – c’è una statua della Vergine. Una statua lignea, quasi a grandezza naturale, della Vergine che fa da contraltare alla statua in terracotta di Emilia, racchiusa in una sala segreta del castello. Doppi, rovesci, sogni, simmetrie: la resina del salice/la maternità. La suora della clinica che alterna «formule pie a visioni terminali non meno rituali». Il duplice punto di vista da cui osserviamo Piero: ciò che in lui – in noi – non vedevamo quando egli era l’io narrante, lo vediamo in seguito, attraverso gli occhi di Padre Eusebio Kuhn. E così, dal piccolo dettaglio del maglione lacerato di Piero, ecco che lo sguardo di Padre Eusebio si allarga sui muri, sui tappeti, sui mobili dell’appartamento dove vive Piero. Ogni cosa è lacerata: «Tutto presentava il segno che alcuni direbbero isterico, ma io preferisco definire indomito, di Piero, cioè un qualche graffio, strappo, sfondamento, squarcio».

Certe volte le opere d’arte non andrebbero troppo decifrate. Andrebbero condivise raccontandole. Esattamente come i sogni.

Gianluca Minotti