Qualcosa di scritto di Emanuele Trevi

Emanuele Trevi

Qualcosa di scritto

Ponte alle Grazie

pp. 246

€ 16,80

2012

 

 

 

 

 

Roma, primi anni Novanta. Mentre i sogni del Novecento volgono a una fine inesorabile e Berlusconi si avvia a prendere il potere, uno scrittore trentenne cinico e ingenuo, sbadato e profondo assieme trova lavoro in un archivio, il Fondo Pier Paolo Pasolini. Su quel dedalo di carte racchiuso in un palazzone del quartiere Prati, regna una bisbetica Laura Betti sul viale del tramonto: ma l’incontro con la folle eroina di questo libro, sedicente eppure autentica erede spirituale del poeta friulano, equivale per il giovane a un incontro con Pasolini stesso, come se l’attrice di “Teorema” fosse plasmata, posseduta dalla sua presenza viva, dal suo itinerario privato di indefesso sperimentatore sessuale e dalla sua vicenda pubblica d’arte, eresia e provocazione. “Qualcosa di scritto” racconta la linea d’ombra di questo contagio e l’inevitabile congedo da esso – un congedo dall’adolescenza e da un’intera epoca; ma racconta anche un’altra vicenda, quella di un’iniziazione ai misteri, di un accesso ai più riposti ed eterni segreti della vita. Una storia nascosta in “Petrolio”, il romanzo incompiuto di Pasolini che vide la luce nel 1992 e che rivive qui in un’interpretazione radicale e illuminante. Una storia che condurrà il lettore per due volte in Grecia, alla sacra Eleusi: come guida, prima il libro postumo di Pier Paolo Pasolini, poi il disincanto della nostra epoca – in cui può tuttavia brillare ancora il paradossale lampo del mistero.

Risolvo così, prendendola direttamente dalla bandella,  la trama di Qualcosa di scritto, libro che reca sulla copertina la dicitura “Romanzo”, quando invece “soltanto” romanzo non è. Emanuele Trevi ci ha d’altronde già abituati a opere che sanno mescolare in maniera sapiente narrazione e critica letteraria. Talmente bene che quando lo si legge, soprattutto in questo straordinario libro, è difficile staccarsi dalla sua voce, dal suo stile, dal ritmo avvolgente di un raccontare che si dipana man mano in modo da procedere avanti, certo, ma non soltanto orizzontalmente quanto piuttosto verticalmente. Una scrittura, quella di Trevi, che ritorna spesso sugli stessi pensieri, concetti, ragionamenti, analisi, fatti, quasi nel tentativo, riuscitissimo, di dissotterrarli per portarli alla luce ancora carichi di mistero. Con tempi, modi, ritmi, che sono come staffilate. Che incidono la carne e la coscienza. Perché qui non c’è niente di consolatorio. E d’altronde, trattandosi di un contagio, che cosa ci dovrebbe essere alla fine di consolatorio? Le intuizioni di Trevi, le immagini che adotta per accompagnare le sue rivelazioni, per farle toccare con mano al lettore, per contagiarlo, appunto, hanno una potenza rara. A volte, in alcuni passaggi, una potenza, oserei dire, devastante.

Qualcosa di scritto può essere letto in tanti modi. Come una parziale biografia di Laura Betti; come un’autobiografia, seppure concentrata in un breve lasso di tempo, di Emanuele Trevi; come l’analisi di un periodo storico, l’ultimo decennio del ventesimo secolo; come la critica a un mondo editoriale, quello degli anni Novanta, dove ci si cura di: «trasformare tutta intera la letteratura in narrativa». (Petrolio esce postumo, nel 1992. Esso «è un grosso frammento, quello che resta di un’opera folle e visionaria, fuori dai codici, rivelatrice. Pasolini ci lavora dalla primavera del 1972 ai giorni che precedono immediatamente la morte, la notte tra l’uno e il due novembre del 1975. Petrolio è una bestia selvaggia… Quando Petrolio viene strappato al beato sogno degli inediti, di libri così non se ne fanno più. Sono cose diventate incomprensibili alla stragrande maggioranza del mondo. Qualcosa è accaduto». Cosa, è accaduto?).

E, naturalmente, si può leggere Qualcosa di scritto come una lucida, mai banale, riflessione su Pier Paolo Pasolini, sulla sua autenticità, sulle sue scelte estreme realizzate in pieno con due opere testamento quali, Salò o le 120 giornate di Sodoma e Petrolio. Opere che traggono la loro forza, urgenza, dal crollo di tutti gli argini tra Arte e Vita, «dal vivere la propria creazione fino alla fine della vita: come quando si muore di parto». Trevi questa cosa ce la dice magistralmente: «Più che opere, erano stati degli organi. Come se quel film e quel libro, invece di accontentarsi di essere girato e scritto come tutti gli altri, gli fossero spuntati addosso, come ali o corna in una fiaba di metamorfosi».

Si dirà che per apprezzare Qualcosa di scritto bisogna conoscere Pier Paolo Pasolini. Conoscere la sua ricerca, personalità, impegno. Sempre a mio modo di vedere, non è così, non del tutto, almeno, perché Trevi riesce a (far) vedere l’uomo Pier Paolo Pasolini, come pochi. Con un umanesimo che poi era proprio dello stesso Pasolini. Questo umanesimo è evidente anche nel fatto che Trevi in fondo ci racconta una storia in cui, all’interno dell’appartamento dove ha sede Il Fondo, si incrocia un’umanità molteplice. Ecco allora che: «Come una calamita, anche dall’altro mondo, anche da sotto terra P.P.P. continuava ad attirare a sé la sua limatura di ferro. Univa destini estranei e lontani».

Gianluca Minotti