L’eleganza è frigida, di Goffredo Parise

l'eleganza è frigida1Goffredo Parise

L’eleganza è frigida

Adelphi

2008

pp. 169

€ 12

Nell’autunno del 1980 Goffredo Parise parte per il Giappone e vi trascorre circa due mesi. È un Parise che solo un anno prima ha subito un grave infarto (preannuncio di quei problemi cardiaci e renali che lo porteranno alla morte nel 1986), e che ha quasi di getto elaborato il manoscritto de L’odore del sangue, il suo personale, crudele ritorno alla forma-romanzo.

Se L’odore del sangue non fosse uscito postumo (nel 1997) ma all’epoca della sua stesura, chissà se avrebbe permesso una valutazione più approfondita delle cosiddette opere minori dello scrittore vicentino, quelle scritte quasi nello stesso periodo almeno, come ad esempio L’eleganza è frigida, il libro-reportage del 1982 dedicato al viaggio nel Paese del Sol Levante.

L’eleganza è frigida, infatti non è solo un eccentrico libro di viaggio, scritto in terza persona (il protagonista si chiama Marco, forse in omaggio a quel Marco Polo veneziano che mai riuscì a metter piede in Giappone), ma anche un esperimento narrativo e una ricognizione estetica su un mondo e su una cultura di cui Parise, affascinato e spaesato, percepisce immediatamente la radicale alterità rispetto al modello occidentale da cui proviene.

Che cos’è il Giappone visitato da Marco/Parise? Intanto è un luogo incommensurabilmente distante dal Paese della Politica, quell’Italia mai nominata ma sempre tenuta come punto di riferimento polemico. A poco più di un anno di distanza dalla rappresentazione viscerale, realizzata ne L’odore del sangue, di una Roma sfatta e livida, bella come un cadavere caravaggesco, ineffabile nel suo accostare splendore e lordura, Parise scopre un modello estetico configurato su principi nettamente opposti: il Giappone è eleganza, distacco, misura, senso della tradizione,  gesti stilizzati, natura trasformata in artificio. Eppure queste considerazioni appartengono già al banale bagaglio del turista comune: e in fondo siamo tutti al corrente che in Giappone i treni sono sempre puntualissimi, e un ritardo viene vissuto sempre come una vergogna nazionale. Anche Parise sembra accorgersi di dover scendere al di sotto dell’oleografia (significativa è la visita e la fuga precipitosa dalla scuola per ricchi occidentali in cui si insegna la cerimonia del tè) e lo fa genialmente, attraverso una risorsa espressiva che in quel momento è il centro e il motore della sua stessa scrittura: la percezione della morte.

Viaggiando in Giappone, paese dai molti dèi, paese senza Chiese, paese dotato di un pragmatismo tutto orientale che riesce a convertire senza traumi la tradizione in modernità, Parise va alla ricerca della morte e dei suoi emblemi. La visita ad un tempio dedicato agli eroi di guerra, il pellegrinaggio alla casa-museo dello scrittore premio Nobel Kawabata, l’esplorazione dei templi buddisti e dei giardini Zen, ma anche esperienze urbane meno rarefatte come l’ingresso in una casa di piaceri dove l’erotismo e la soddisfazione sessuale sono vissuti come riti meccanici e contenuti, sono occasioni per attraversare microuniversi in cui ogni cosa pare rivelarsi nella sua essenza ed allo stesso tempo prendere congedo. Il Giappone diventa quasi un complemento esperienziale alla scrittura dei Sillabari, quei Sillabari in cui prende forma e si acuisce la nostalgica consapevolezza che in ogni momento lasciamo e siamo lasciati e che di ricordo in ricordo le nostre voci svaniranno in un suono ancora più indistinto del fruscio del vento invernale tra gli alberi: “Marco fu colpito immensamente da un rumore, uno solo nel silenzio: era il suono prodotto da una breve canna di bambù posta in equilibrio tra un ruscello e una pozza sottostante. L’acqua si infilava colando dal ruscello, percorreva la canna, poi saltellava in basso nella limpida pozza di ninfee dalle larghe foglie abbandonate. La canna appesantita dall’acqua che scorreva all’interno si piegava fino al bordo della pozza e una volta svuotata del contenuto tornava indietro per riempirsi un’altra volta e così via: nel farlo batteva contro il bordo di pietra della pozza con un suono secco e vuoto: toc”.

Ovunque qualcosa o qualcuno muore ed è un sollievo, perché si muore, senza colpa e senza redenzione, affinché tutto continui ad accadere. È l’essenza degli haiku (il genere poetico tipicamente giapponese di brevi componimenti di diciassette sillabe) tanto amati da Parise: si contempla un moto della natura e la contemplazione è già un distacco, una partenza.

Ed è forse questa una della chiavi per apprezzare il libro. Provenendo dall’Italia, paese della Politica e dei Grandi Inesplicati e Necessari Misteri, Parise scopre, grazie anche al sorriso sapienziale della signorina Momoko Takugawa, sua accompagnatrice, che in Giappone non vi sono Misteri, ma al massimo enigmi ed emblemi: non vi sono Misteri perché non vi sono Domande.

Risolto è l’eterno scacco del Desiderio in un luogo dove tutto è nascosto ed offerto, tutto è vicino e remoto, tutto accade e scompare.

(Ho letto alcune pagine de L’eleganza è frigida la sera del 31 agosto 2013, a casa di Claudia, quando insieme a Gianluca e Andreina abbiamo ricordato i 27 anni dalla scomparsa di Parise: a un tratto siamo restati in silenzio ed era un silenzio fresco come un’ombra e mi è sembrato per un breve attimo di sentire il toc di una canna di bambù e il canto di un ruscello.)

Davide Fischanger