La casa del padre di Giorgio Montefoschi

La casa del padre

Giorgio Montefoschi

Rizzoli

Collana: Bur scrittori contemporanei

pp. 264

€ 9,80

2006

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«Ogni volta che ripenso a quel periodo della vita, ho il cuore in subbuglio. Avevo vent’anni: ero apprensivo, nostalgico, disponibile a credere in un evento che, presto, sarebbe accaduto. Così, quando decidemmo di tornare nel nostro quartiere – le strade tra piazza delle Muse e piazza Ungheria – coltivai una speranza. Lasciavamo, infatti, i luoghi che avevo amato, e dove molte cose erano successe: via Tacito, il Tevere, piazza della Libertà; ma tornavamo in altri che avevo amato ancora di più: per giunta nella casa in cui avevo trascorso l’infanzia. Non era sufficiente?».

La casa del padre di Giorgio Montefoschi, (Premio Strega nel 1994), inizia con un trasloco, o meglio: con un tentativo di recupero della memoria. Dell’integrità familiare. Alla ricerca di un tempo ormai perduto, perché poi la vita, nel tentativo che ognuno farà per compiersi, sarà forse una continua spoliazione. Smarrire cose, certezze, illusioni, speranze. A ogni svolta e diramazione. E la casa del padre, ciascuna abitazione, non potrà mai essere un approdo sicuro: non per Pietro Bellelli, non per i suoi genitori e neanche per suo figlio Mario.

Il libro si divide in due parti, più un breve epilogo: tre parti nelle quali cambia il punto di vista e il tempo: nella prima, il  protagonista, Pietro Bellelli, narra in prima persona, mentre nella seconda, passati vent’anni, il narratore, così come nella terza, è esterno. E questo passaggio avviene in maniera straniante nel finale della prima parte: «Piuttosto vedevo me stesso, Pietro Bellelli, sulla spiaggia, ma accanto a quella donna e i due bambini e, l’ho detto, non provavo ansia. Poi la scena mutava. Noi raccoglievamo i secchielli, i sandali, i vestiti; uscivamo dal varco dello stabilimento e, col treno, tornavamo in città E la spiaggia rimaneva deserta. Però, dal molo, qualcuno continuava a scrutarla. Chi era quell’uomo?». A parte la riflessione sul narratore, è qui presagito uno struggente senso di scacco e lateralità. È infatti questo un libro stranissimo, etereo, fatto di non si sa bene cosa, un libro che parla di nodi di cui tace, un libro che nasconde, forse, tra i segni grafici tracciati, altri misteriosi che seppure non si leggono, si intuiscono. Un libro scritto di niente, ma di un peso enorme, un libro fatto di tempo che passa e odori e stagioni che si succedono e case e stanze e morti che vanno via in punta di piedi. Di nessuna tragedia, ma di un continuo martellante dolore. Sottile, lieve, un cristallo, un’opera finemente cesellata per restituire una città, Roma, un’atmosfera, una decadenza, un logorio, un lascito di generazione in generazione. Bellissimo.

Noto soltanto adesso, e con stupore, come nel brano ripreso sopra, il protagonista dica che: “col treno, tornavamo in città”. Col treno. Non con la macchina. Questa cosa mi piace. Che nei romanzi si torni a casa in treno e non in macchina, insomma. E qui addirittura una intera famiglia. Ci tengo a sottolineare che non lavoro per Trenitalia né ho parenti che ci lavorano. Però son convinto che, anche qui, se Pietro Bellelli fosse tornato in città in macchina, sarebbe stata tutta un’altra questione, molto più razionale, perché guidando non avrebbe avuto tempo, modo, possibilità di “vedersi da fuori”.

Gianluca Minotti

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