Se domani si vive o si muore di Giuseppe Truini

se domani si viveSe domani si vive o si muore

Giuseppe Truini

Edizioni Ensemble

Collan: Échos

€ 15,00

pp. 212

 

 

 

 

C’è un’auto imbottita d’esplosivo a Piazza del Quirinale. Dentro, cinque ragazzi, con cinque telecomandi, pronti a far saltare tutto in aria: Alberto, Vincenzo, Andrea, Livia, e poi lui, Lino. Non sono terroristi. Non appartengono a nessuna cellula criminale. Non sono né rossi né neri. Tutt’intorno, sui tetti, sono appostati i cecchini; lungo la piazza, i cordoni della Polizia; e poi i politici, «con lo sguardo apparentemente preoccupato», e i giornalisti e i cameraman. Un ispettore di Polizia propone ai ragazzi di trattare. «Cosa volete?», chiede. «Vogliamo la dignità» risponde Livia. Poi, quando l’ispettore si rivolge a Lino, il ragazzo, dopo averci riflettuto, risponde: «Voglio solo che stiate ad ascoltarmi».

Inizia così Se domani si vive o si muore di Giuseppe Truini, pubblicato per le Edizioni Ensemble. Con una scena altamente potente. Con una sorta di conta alla rovescia, prima della quale, però, Lino desidera che l’ispettore, la Polizia, la folla radunata, la società intera – il lettore – ascoltino la sua storia. Una storia che, prima dell’epilogo, si dispiega in dieci capitoli strutturati come un lungo flashback, narrato però al presente, in cui Lino chiarisce, a se stesso e agli amici, le tappe che lo hanno portato a ritrovarsi adesso dentro quella macchina piena di esplosivo, giacché: «Non credevo che ci saremmo spinti fino a questo punto».

Ventotto anni, studente di Filosofia a Roma, fidanzato con Michela, iscritto a un corso di teatro, appartenente a una famiglia agiata di Frosinone, di fronte all’improvvisa richiesta del padre di partire per Torino a salvare le sorti della propria azienda, Lino, pur non essendosi mai interessato dell’attività del padre, molla tutto e parte. Anche perché in fondo non ha molto da perdere. Non fa un esame da due anni, non è innamorato di Michela; e per quanto riguarda gli amici, be’, il suo cellulare non squilla da mesi e «su facebook posso andarci anche a Torino». Però a Torino non avrà molto tempo e voglia di andare su facebook perché ad attenderlo ci sarà una sfida micidiale: quella di riuscire a ottenere da una banca il credito sufficiente per garantire all’azienda di non chiudere e agli operai di non essere licenziati. E allora ecco comparire Alberto, responsabile della sede di Torino, che nel giro di una settimana sottopone Lino a una vera e propria full immersion per insegnargli tutto ciò che ha sempre ignorato del lavoro del padre. Ma non solo: Alberto si occupa di lui in tutto e per tutto, accompagnandolo anche a comprare vestiti, cravatte, scarpe costose. Come Lino dovesse interpretare una parte non sua. Come fosse una recita. Una recita in cui in gioco c’è però la vita vera. Come veri sono Vincenzo, Andrea e Livia, che Lino conosce giacché dividono lo stesso appartamento di Alberto. Andrea, Vincenzo, Livia, e lo stesso Alberto (ripetiamo i nomi, perché i nomi sono carne, sono sangue): ognuno con le proprie aspettative deluse, ognuno costretto ad adattarsi a un ruolo che non gli è proprio. E insomma, in breve Lino diventa come il bambino che, nel documentario di Piero Angela, «passa tutta la giornata a proteggere il campo di grano della sua famiglia dagli assalti dei babbuini che potrebbero distruggerlo in un quarto d’ora, condannando tutti a morire di fame».

Lo sapevo che alla fine non mi sarei trattenuto, che sarei stato preda della foga, dell’ansia di comunicare il mio stupore per la forza dirompente di queste pagine intrise di candore, cinismo, disillusione, rabbia. Pagine capaci di restituire il senso di una generazione che si è vista depredata prima del futuro, poi del presente (o il contrario?), e infine della propria dignità. Perché i ragazzi come Lino, Alberto, Livia, hanno studiato. E niente. Hanno fatto la gavetta. E niente. Ma non solo: è stato detto loro di aspettare. E hanno aspettato. Zitti, buoni, hanno aspettato. Addirittura credendo a chi ha detto loro di aspettare, a chi sembrava li stesse ascoltando, e invece se ne sbatteva delle loro istanze, delle loro speranze.

Adesso, però, non voglio dire di più: soltanto un’ultima cosa, poi vi giuro che smetto e vi lascio leggere. Volevo dire che ogni romanzo, quando funziona, quando mantiene una sua coerenza interna, trova ragione e verità in virtù di questa stessa coerenza. Nessuno può venire da fuori a sentenziare che le scelte di un personaggio, piuttosto che dell’altro, sono sbagliate. Non c’è niente di sbagliato in un romanzo ben fatto. Un romanzo ben fatto mette in campo un’idea, una possibilità, una critica al mondo. È di per se stesso una sfida, un tentativo di smuovere le coscienze, di risvegliare gli assopiti, di ricordarci della nostra (perduta?) dignità.

Giuseppe Truini, classe 1979, è nato in provincia di Frosinone, dove attualmente vive. Di mestiere – ma in maniera precaria – fa l’insegnante. Se domani si vive o si muore è il suo primo romanzo.

Gianluca Minotti