Ne La notte, il racconto che conclude Selve d’amore di Gianni Celati (Quodlibet, 2013), un passo nelle pagine finali potrà sorprendere il lettore selvaggio e innamorato. Vi si parla appunto della notte prima del ricovero in manicomio di Pucci, amico del narratore e protagonista, tra l’altro, di alcuni dei racconti pubblicati nelle precedenti raccolte di Vite di pascolanti (Nottetempo) e di Costumi degli italiani (Quodlibet).
Il passo è questo:
«La madre s’è seduta sull’orlo del materasso, ed è rimasta ad aspettare l’alba. Qui io invento tutto, si capisce ma so cosa succede in questi momenti. Tu sei come al solito nella tua prigione, guardi dalle inferriate e vedi una punta di luce che viene da oriente; allora vai col pensiero verso quella luce, che non è nessuna speranza, è solo un giorno uguale a tutti gli altri che sta per cominciare. Ma questo è il buono della faccenda: tu aspetti il giorno ancora una volta, senza aspettarti niente, soltanto perché ci sei, e sei lì da buon carcerato, come fosse il mattino della tua liberazione.»
Ma nel caso del brano di Celati la tentazione è troppo forte per non provarsi a decifrare questo sogno di prigione.
“I see my light come shining / from the west unto the east / any day now, any day now, / i shall be released.”
La luce (lì da oriente, qui “from the west unto the east”), il giorno (giorno che segue un altro giorno, l’attesa), la liberazione. È la voce di Bob Dylan, o a scelta la performance di The Band (dipende dall’album di riferimento, i Basement Tapes o Bob Dylan Greatest Hits Vol.2 o The last waltz) nella canzone I Shall Be Released, che si è insinuata nella veglia notturna e nella visone della luce mattutina, che ha prodotto uno strano effetto di risonanza nella voce del narratore, nel momento della vita di una persona in cui si accede forse a uno speciale tipo di percezione e di consapevolezza. Nel momento, anzi, in cui percezione e consapevolezza scivolano in un altro stadio d’umanità, tralasciano argomenti di coerenza, di forma, di regolarità, perdono almeno temporaneamente il controllo sull’individuo e lo lasciano respirare. E vivere.
“I see my light come shining…”: chi potrebbe cantare questo straordinario inno?
Un carcerato? Un uomo dietro un muro? Un ubriaco? Uno che perso nelle ombre della sera giri a piedi in un quartiere sconosciuto, davanti a portoni di condomini abitati da studenti, pensionati e gente sola?
Un pazzo?
“Any day now…”
O potrebbe essere forse un poeta? uno che assembla provvisoriamente i frammenti del tempo, celebrando “questo insostanziale, e il vuoto, l’ombra, l’erba secca, le pietre dei muri che crollano e la polvere che respiriamo” (Gianni Celati, da I lettori di libri sono sempre più falsi, in Quattro novelle sulle apparenze, Feltrinelli)?
Ma forse queste sono solo domande, e strade sbagliate, false analogie, inutili pensieri.
A volte i pensieri e le domande vengono così. Scie luminose che attraversano la calotta cranica, come stelle cadenti.
Davide Fischanger
[…] La Notte e le strane risonanze: da Gianni Celati a Bob Dylan. […]