Troppo umana speranza, Alessandro Mari

Alessandro Mari

Troppo umana speranza

Feltrinelli

I Narratori

pp. 749

€ 18

2011

Sto leggendo Troppo umana speranza di Alessandro Mari.  La bandella del libro riporta che Alessandro Mari si è laureato con una tesi su Thomas Pynchon e che ha iniziato giovanissimo a lavorare per l’editoria. Come lettore, traduttore e ghostwriter. Questa però non è una scheda sull’autore e non è neanche una recensione. Non ancora, almeno. Mi restano davanti 680 pagine. Il fatto è che vorrei condividere il libro di Mari con voi. Per cui, vi prego, dite la vostra!!!!

Giuseppe Genna, nel suo sito, qui, lo loda: «Uno degli esordi più potenti e “alti” degli ultimi anni».

E riporta l’incipit:

«Menar merda non è poi una mala occupazione; peccato, certo, non si fa. Rischi invece se ne corrono, e di sovente. Si metta il caso di andare in un paio di zoccoli e senz’accorgersi di spataccare sotto la suola una chiazza venuta da chissà dove; si affondano le dita, tutto il calcagno, e patatràc: riccioli di viscidume risalgono il piede quasi fossero tentacoli di un essere di merda, e lo zoccolo è presto inghiottito. E il puzzo! Gelosamente custodito, allo schiudersi della chiazza si leverà come uno zampillo caldo di fontana… Insomma, la merda a maneggiarla c’ha i suoi contrattempi, ma a prestare l’attenzione necessaria si potrebbero goder le gioie di trafficarla, e nel far così vagolare per viottoli e stradicelle, orti e porcilaie, conoscere ogni braccio di terra e divenire pratici di tutte le cascine. S’apprenderà dove coglierne di fresca senza rimediare bastonate, la maniera di rimestarla e miscelarla, diluirla e custodirla fino alla benedizione e poi menarla per il borgo in ogni sua periferia, là dove la terra ingolla ogni pioggia senza lasciarne alle colture, cedendo alla propria anima di brughiera. E a menar merda ci s’intenderà coi fattori e le pie donne, s’arriverà a comprendere come distinguere bestia da bestia per qualità del defecare – “si è quel che si caga,” ha detto una volta un tale, “ed è meglio tenerlo a mente, ché la merda non dà scampo. Un giorno o l’altro ce l’hai nel piatto o ci sprofondi”. Con l’onesto lavorio e un po’ di buona sorte, infine, al passare del carro e della sua odorosa mercanzia le genti leveranno le mani in segno di saluto, e con due dita vorranno ben turarsi il naso. “Ah! L’è arrivato il menamerda!

Il tramonto non è lontano, l’aria marzolina eppure già di primavera. L’orizzonte è di pianura, largo, le Alpi lo serrano a settentrione e altrove c’è soltanto cielo. Spira un alito di vento, inclina i pennacchi che si levano numerosi dai campi e dalle corti, e dappertutto si ode risuonare secco il crepitio dei falò appena avviati. Era il dì di San Giuseppe, e il fumo saliva da fiamme che divoravano tutto ciò che i paesani davano loro in pasto, che fossero stoppie o fascine umide, finanche la manciata di polvere rimasta sul fondo di macine e frantoi. S’incenerivano vecchi stocchi di frumentone e bucce di castagna, sterpaglie e ciocchi torti, perfino i rametti durati all’ultima sfogliatura dei gelsi. Certi ragazzetti col moccio sull’orlo del naso s’industriavano a rubare qualche chicco e nonostante la minaccia d’un manrovescio lo gettavano tra le fiamme, tappandosi le orecchie per via del fragoroso scoppiettio; vivaci, allora, le risate si fondevano coi rimbrotti e con le invocazioni ripetute allo sfinimento. Si purificava la terra col fuoco affinché s’avverasse una stagione buona, e a incrociare ogni compaesano si avvertiva il medesimo, speranzoso mugugno di preghiere: che i focolai di colera si spegnessero prima che si ripiombasse nei giorni cupi; che la masnada di tugnìt austriaci e tedeschi – e croati, che i croati “son brutte bestie” – se ne tornasse a casa propria ad angariare qualche Asburgo anziché la gente del borgo; che la vecchia schiantasse sfuggendo a nuove pene; che la fulva s’arrendesse a imboscarsi nel fienile; che là sotto il marito ormai svilito tornasse duro come una volta; che ul Tempesta, fabbro da schiaffoni duri come grandine, non se ne avesse a male per quel carico guastato. E che san Giuseppe mandasse pioggia il giusto e un’estate da non soffocare nell’afa, e che Iddio garantisse il raccolto, mica che si morisse di fame come l’anno andato, che i pozzi erano asciutti e così le rogge, senz’acqua i prati e le spighe smilze, e i castagni, le viti, i gelsi, tutto sciupato, le bestie senz’alimento, coi muggiti famelici che squassavano le stalle, magri pure i bachi da seta…
Primaverile. Per il borgo spirava una brezza che odorava di rinascita e il soffio invogliava a fugare le paure, ché a pensarle si temeva si attuassero per colpa di una diavoleria. Non mancavano gli audaci, i quali s’arrischiavano a immaginare le sciagure più tremende, illusi di poterle esorcizzare a sola forza di pensiero, ma in ogni caso oggi nel petto di ciascuno avvampava un bisogno di speranza, e dunque, per devozione ma con economia – si raccomandasse pure la terra al santo, ma mica si sprecasse il poco che Domineddio aveva dato in dono –, ecco bruciare smilzi roghi da lasciare alla notte. Allo svaporare della bruma mattutina, una volta spenti i lucori delle ceneri ancora tiepide, sulla terra nera di campi, orticelli e semenzai si sarebbe versata qualche badilata di concime. Non quello delle rare bestie dei villani, povero, ammonticchiato nei letamai delle cascine ad alimentare mosche e scarabei. Alla terra si sarebbe offerto concime santo, quello che nel borgo di Sacconago consegnava a domicilio Colombino. Letame benedetto.
“Eugenio, corri! Eugenio, è arrivato il menamerda!
».

Io sono rimasto avvinto. Dall’incipit, certo, ma anche dalle pagine seguenti. Dalla scrittura. Dalla forza della scrittura e dal fatto che Alessandro Mari fa una cosa rivoluzionaria: NARRA. Narra con un gusto proprio della Narrazione (ma va’, direte voi). E mette insieme romanzo ottocentesco e postmoderno americano, perché il postmoderno americano si sente. Si sente nella tessitura, nella consapevolezza della tessitura. Nell’energia immaginifica capace di risvegliare quel vero lettore che – si spera – dovrebbe essere in noi. Altrimenti sopito da un’altra specie di libri, i quali, siamo sinceri, si possono leggere anche “dormendo”. O con un occhio solo. O facendo nel mentre altre cose: ché leggere, si sa, non dovrebbe distrarci troppo dallo sbrigare intanto faccende di molto più serie.

Altro elemento che non può non colpire è la padronanza della lingua, la ricchezza di vocabolario, o meglio: l’affrancamento delle parole dai vecchi e polverosi dizionari. Parole, termini, “lemmi” (chiamateli come volete) che, riscattati dall’oblio, saltellano qua e là, fanno l’occhiolino, ci pizzicano il sedere e ci fanno il solletico, tanto contenti sono di dirci/ricordarci il loro nome.

Io sono a pagina 63 e voi? C’è qualcuno di là che lo sta leggendo? Qualcuno che ha il dubbio che questo libro sia un puro esercizio di stile, un dispiegare le armi per una battaglia già persa o che non si farà mai?

Gianluca Minotti

Prima metà del diciannovesimo secolo. Sullo sfondo di un’Italia che non è ancora una nazione, quattro giovani si muovono alla ricerca di un mondo migliore: un orfano spronato dalla semplicità che è dei contadini e dei santi; una donna, sensi all’erta e intelligenza acuta, avviata a diventare una spia; un pittore di lascive signore aristocratiche che batte la strada nuova della fotografia; e il Generale Garibaldi visto con gli occhi innamorati della splendente, sensualissima Aninha.
Siamo di fronte a un’opera che si muove libera nella tradizione narrativa otto-novecentesca – europea e americana. Racconta, esplora documenti, inventa, gioca e tutto riconduce, con sicuro talento, a un solo correre fluviale di storie che si intrecciano e a un sentimento che tutte le calamita.

5 Risposte a “Troppo umana speranza, Alessandro Mari”

  1. Lei diceva, Minotti, di non voler fare una recensione, ma di fatto ha recensito le sue 63 pagine. Mi dispiace non poter ancora condividere il libro, in quanto non l’ho letto, però cercherò quanto prima di rimediare e di propormi con una mia opinione, magari anche solo delle prime 20 pagine.
    Cordialità. 🙂

    1. Gentile Lucilla,
      qualsiasi sua opinione, anche soltanto sulle prime 19 pagine, sarà gradita. Io intanto sono arrivato a pagina 100 e la mia impressione sul libro non cambia: leggerlo è piacevole. Infonde gioia e speranza. Troppo umana speranza.

      Gianluca

  2. Ormai lo avrai finito. A me non capitava da anni di lasciare un libro con sofferenza, come quando si lascia un luogo amatissimo. Non è affatto un esercizio di stile, è una narrazione meravigliosa anche quando è imperfetta. Il mistero è che non sia diventato un best seller…

    1. Secondo me la questione fondamentale sta nella narrazione. Questo è un libro in cui c’è davvero una narrazione. Potente. La storia è narrata, non è “detta”. E’ questo, paradossalmente, a impedirgli di diventare un best seller.

      Gianluca

  3. Io sono a pagina 505, leggerlo è stato molto gradevole e istruttivo. Sono andato a rileggermi contemporaneamente la storia del risorgimento dell’Italia e dei suoi artefici. Cose che un poco si dimenticano. Mi ha riportato ai tempi della scuola …..e della mia giovinezza. Penso che leggere sia molto importante ma quando un libro ti porta indirettamente anche a piacevoli ricordi ….non credo si possa chiedere di più

I commenti sono chiusi.