Un libro immenso di Javier Marìas

Sto rileggendo “Domani nella battaglia pensa a me”, di Javier Marías, lo sto rileggendo per la terza volta ed è stupefacente come uno scrittore possa essere così immenso, perfetto, come tutta la narrazione possa essere un groviglio, un’idea che si dipana e si annoda, come la scrittura possa essere una lama che si conficca nella carne perché tutto inizia con una morta, una donna che muore improvvisamente tra le braccia dell’io narrante che la conosce appena ma che si ritrova una sera a casa di lei – la donna è sposata e il marito è a Londra per lavoro, ma in casa c’è il figlio di lei, che ha due anni. E poi, più tardi, quando il bambino si addormenta, l’uomo e la donna si ritrovano in camera da letto e iniziano a spogliarsi e questo inizio contiene già una fine, perché la donna dice di non sentirsi bene e l’uomo non sa che fare, e così la donna muore – una morte ridicola – e l’uomo, questo io narrante che non si dà tregua e la cui mente tiene i fili di tutte le conseguenze, possibilità, ordisce e tesse trame – gira per casa, mentre sullo schermo di una tv passano le immagini in bianco e nero di un vecchio film con Barbara Stanwyck e Fred Mac-Murray : prova a telefonare al marito della donna, o meglio, al numero dell’albergo di Londra che il marito ha scritto su un foglietto e lasciato vicino al telefono, si preoccupa di lasciare da mangiare al bambino che dorme e nel suo sonno non sa che la sua vita è per sempre cambiata, allo stesso modo – pensa l’io narrante – del marito della donna che lui non è riuscito ad avvertire – perché il portiere gli ha ha detto che nessuno con quel nome è registrato in albergo -, e che vivrà ancora un giorno intero prima di sapere della morte della moglie, il che è indicibile, perché quando questo marito lo saprà, come potrà perdonarsi di aver vissuto un giorno senza sapere di questa morte? Non sopportiamo di non sapere che chi amiamo non c’è più e dobbiamo saperlo subito, per poter correre se siamo lontani, per poterci prendere cura del morto, della morta, di nostro figlio che è rimasto solo e che si sveglierà e chiamerà la madre e la madre non risponderà e allora si alzerà e andrà nella camera della madre e vedendola sul letto penserà che sta dormendo e la chiamerà ancora e cercherà di svegliarla toccandola e tirandole un braccio e le prenderà la mano e la sentirà fredda, la mano, e non capirà, perché – come ci dice l’io narrante – i bambini non sanno cosa sia la morte e seppure ne avessero un qualche sentimento non ne hanno l’immagine.
Libro immenso, come molti libri di Marías, libri che ci restituiscono in pieno la parzialità del nostro esistere, come fossero trattati filosofici sulla nostra caducità, sulla morte, sulla geografia intima del nostro sentire, ricordare, morire e come sopravviviamo ai nostri morti di cui ricordiamo i nomi ma non sappiamo né mai sapremo i loro volti domani.

Gianluca Minotti