Raccontare storie (1)

Raccontare storie. Qual è  il senso del raccontare storie e, più specificatamente, “scrivere” storie?

Un’immagine che chiude il capolavoro di Ursula Hegi, Stones from the river, (Come pietre nel fiume, 1994, pubblicato da Feltrinelli nel 2002) ci viene subito in soccorso: raccontare è come rastrellare un giardino. Rastrellando, tutti i grovigli delle vite delle persone, come foglie, sterpi, pietre, radici nodose, si combinano tra loro. E lentamente il giardino – il mondo, la realtà – mostra, una volta ripulito e ordinato, la sua traccia nascosta, la sacra sindone che ne è il calco più esatto. Ma, come Trudi Montag (la protagonista del libro) ha imparato dal padre Leo, «che aveva rastrellato la terra dietro la biblioteca ogni settimana», rastrellare non è così facile come si potrebbe pensare: è invece un lavoro che deve essere svolto con umiltà e sacrificio.

Ma chi è Trudi Montag?

Trudi Montag nasce a Burgdorf, un villaggio sulle rive del Reno, nella prima metà del XX secolo. È figlia di Leo, il bibliotecario del paese e della bellissima Gertrud. Quando la madre scopre che Trudi è nana si inabissa in una spirale di follia che la condurrà alla morte. Intanto, adorata e vezzeggiata dal padre, Trudi passa dall’infanzia a un’amara adolescenza, e si trova costretta ad affrontare, con dolorosa consapevolezza, la sofferenza della propria diversità. La Storia nel frattempo travolge tutto: avanza il nazismo, iniziano le persecuzioni e la guerra. Padre e figlia, in questo scenario, nascondono alcuni ebrei e celano i libri che il regime vorrebbe bruciare, trasformandosi nei custodi della cultura: nei custodi delle “storie” (gli uomini, i libri), se è vero che Trudi Montag cresce leggendo e ascoltando e raccontando, a sua volta, storie.

Ecco chi è Trudi Montag. Ma non è tutto qui: perché il cognome che porta, rimanda direttamente a Montag, il pompiere protagonista del romanzo di Ray Bradbury, Fahrenheit 451, colui che ugualmente, in un’ipotetica società del futuro, salva i libri (la memoria storica e culturale, le differenze) dal rogo.

Riprendendo il filo del discorso,  ecco la prima riflessione: per raccontare ci vuole pazienza e non si può aver fretta di giungere alla fine, non si può prescindere dal fatto che il termine del lavoro è dato dalla somma (o sottrazione?) di ogni singolo e meticoloso colpo di rastrello, perché non ne è sufficiente uno per eliminare le zolle di terra che restano a coprire il prato. Bisogna insistere, sudare, flettere continuamente il braccio per avvicinare ancora il rastrello e poi allontanarlo per un colpo successivo: molta, molta pazienza, un lavoro ordinato e pensato, non un gesto convulso compiuto con la mente altrove. Bisogna scartare le erbacce con perizia e puntigliosità. Con perseveranza e un senso di riverenza per il compito, perché se l’esercizio che stiamo compiendo funziona, a un certo punto ci sentiremo più forti e il rastrello peserà meno. E peserà meno perché a tenerlo non saranno soltanto le nostre braccia, ma anche le braccia di tutti i personaggi che stiamo ripulendo dalla pioggia caduta a dirotto, dai grumi di fango da cui lentamente stanno emergendo questi uomini, con i loro tratti somatici e caratteriali sempre più precisi, con la loro rete di rapporti, con le loro manie e le loro speranze, con le loro lacrime e le loro farfalle, con il loro sangue, i loro progetti, le loro miserie.

Così, solo così, un disegno apparirà, nascerà. Sarà.

Così, solo così, le storie iniziano a raccontarsi: tra loro, non “a noi”.

Perché le storie, se sono davvero “narrazioni”, si raccontano le une alle altre in una polifonia di voci sovrapposte: ognuna è in ascolto dell’altra, mentre, contemporaneamente, dice se stessa.

Gianluca Minotti

Come pietre nel fiume

Ursula Hegi

Feltrinelli

pp. 552

€ 18,08

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