L’originale di Giorgia, di Paolo Zanotti

In questi giorni ho riletto L’originale di Giorgia, di Paolo Zanotti.

 

L’ho riletto perché in qualche modo, altrettanto misterioso come misterioso è il racconto, l’ho vissuto sulla mia pelle, camminando lungo una spiaggia, rivedendo persone che non vedevo da tanto; inseguendo, a distanza di anni, la mia Giorgia, che non si chiama Giorgia, e il cui nome è ormai soltanto un indizio vago di un tempo già perduto.

E mi è tornato in mente che un paio di anni fa, per una rivista, avevo scritto un pezzo su L’originale di Giorgia, un pezzo che ora riprendo, di seguito, senza alterarlo di una virgola, anche se è evidente come, a causa di queste prime righe, io stesso abbia infranto l’originale di quanto avevo scritto; sebbene ciò, a pensarci bene, alla fine sia perfettamente coerente al tema. Perché L’originale di Giorgia è un racconto sulla fine e sull’evaporazione della giovinezza, e sul modo in cui poi continua a piovere, la giovinezza, anche quando diventiamo adulti, e sulle rifrazioni di luce, sui miraggi che ci fanno vedere cose e persone che forse non ci sono più.

Ed è soprattutto un racconto sulla maniera con la quale “una bimba ginocchia-bucate” è ammessa in un gruppo di bambini maschi che, pian piano, si invaghiscono di lei e se ne innamorano senza poter dire chi di loro la ami di più. Negli anni che vanno dalle elementari alle medie e poi al liceo, sempre tutti innamorati di Giorgia, che intanto si trasforma in una “rosapesce”, scompare nella nebbia e va a studiare in Francia, oltre le Alpi, in un luogo imprecisato.
Ma è difficile dire chi sia Giorgia, difficile dire se sia esattamente la stessa per ognuno di questi ragazzi.

E così, se Tommy tenta di riprodurne all’acquarello il rosso dei capelli e Renato ne scruta lo sbocciare del corpo, «sicuro che fosse percettibile come lo spostarsi di una nuvola», ecco che Diego è invaghito dalla maniera in cui Giorgia incrocia i piedi quando sta ferma, mentre Leo afferma che mai nessuna ragazza aveva camminato il mondo con passo più elegante.

Ognuno dei ragazzi si concentra su un particolare di Giorgia, senza però riuscire a catturarlo, quel particolare, perché alla fine i soli che hanno ragione sembrano essere i gemelli che vedono in Giorgia qualcosa di più indefinito, «da qualche parte sulla strada che porta dalla mamma alla luna».

E infine c’è il narratore, che non ha nome e dà voce a questa storia. E lui, il narratore, naturalmente è ammaliato dalla voce di Giorgia e ne cerca la traccia in tutte le parole che sente pronunciare «a scuola a casa per strada, in modo da imparare a riassemblarla, per ogni evenienza».

Ecco, L’originale di Giorgia di Paolo Zanotti (uscito nel 2005 sulla rivista “Il Caffè Illustrato” e poi nel 2017 pubblicato nell’omonima raccolta dalle Edizioni Pendragon) è il tentativo di dare voce, forma, sostanza a qualcosa che però è mutevole e, per sua stessa natura, inafferrabile.

Sembra uno di quei racconti che avrebbe potuto scrivere soltanto Roberto Bolaño. Roberto Bolaño, e Paolo Zanotti, appunto, il quale lo fa con una grazia struggente e rara. Perché questa mia è una lettura incantata: è l’omaggio a Paolo Zanotti, il mio personale omaggio alla sua Giorgia. Perché il narratore spesso parla utilizzando la prima persona plurale, un “noi” di cui ci sentiamo parte, così come ci sentiamo chiamati in causa quando egli si rivolge direttamente a Giorgia dandole del “tu”. Quasi a sperare che un giorno Giorgia possa leggere queste righe che sono allo stesso tempo un’indagine, un canto e un discanto.
Un’indagine su Giorgia, che però da subito appare come una galassia, un essere dalle molteplici individualità: insondabile, irraggiungibile, impalpabile (eppure Leo l’ha baciata!). E si duplica, Giorgia, si sdoppia, la sua immagine riprodotta, riflessa altrove: ad Anversa, a Lille, a Klagenfurt, a La Rochelle, a Nantes. Giorgia è nella mente e nei discorsi degli altri, nelle voci indirette attraverso le quali si tenta di ricostruirne gli spostamenti, nelle telefonate interurbane che giungono improvvise.

Quasi del tutto fuori fuoco e fuori campo nel racconto, Giorgia è colei che con un dito scrive il proprio nome sul vetro di un bus senza arrivare oltre la lettera “R”, per poi svanire. Allo stesso modo della giovinezza – perché Giorgia è l’infanzia perduta, è la giovinezza – che mentre la viviamo, la gioviNezza, siamo già alla lettera “N” e va finendo: ed ecco il canto, la lode a quando il futuro era spalancato davanti e tutto sembrava possibile ed eterno. Anche il mistero indecifrabile di ciò che siamo e proviamo nei confronti di noi stessi e degli altri, e chi siamo noi e chi sono gli altri. Questo finché il canto non coincide con il discanto, quando cioè gli anni iniziano a passare – gli anni passano in questo racconto come nei racconti di Roberto Bolaño: con le omissioni, con le cose che accadono e sembrano non toccarci, quando invece hanno per noi conseguenze irreversibili – finché il tempo che abbiamo alle spalle diventa maggiore di quello che abbiamo davanti.

Perché la beffa è che solo allora, quando forse è ormai troppo tardi, il senso del nostro essere al mondo si rivelerà:

«Uno va in cerca di presagi, indizi, premonizioni, o qualche dritta sul futuro. Ma è solo dopo, solo nei ricordi che il gioco funziona davvero. Nessuno avrebbe potuto intuire, in quegli anni di vento e libellule e Alpi lontane, il tema di fondo di questa storia. Che in realtà è semplice: la natura collettiva dell’amore».

Gianluca Minotti