Jim Thompson, Un uomo da niente

un uomo da nienteJim Thompson

Un uomo da niente

Einaudi, 2013

Traduzione di Luca Briasco

250 pp.

€ 17,00

Chiediamolo, per esempio, direttamente a lui. A Clinton Brown. Brownie, per gli amici. Eccolo che se ne sta nell’ufficio del giornale, il “Courier” di Pacific City (nome programmatico), dove, una volta che i suoi colleghi sono andati via, sta battendo a macchina, non un articolo di cronaca qualsiasi, di quelli che indubbiamente sa scrivere perché è un ottimo giornalista, ma il proprio resoconto. Buttato giù per capire come davvero siano andati i fatti. Lo so, lo so!, Clinton Brown è il protagonista di Un uomo da niente di Jim Thompson, dirà subito qualcuno, alzando la mano. Bene: risposta esatta. Ma certamente non esaustiva,  perché, se lo chiedessimo direttamente a lui, a Brownie, appunto; se gli chiedessimo: ma tu chi sei veramente, cos’è che hai fatto, cos’è che provi?, lui alzerebbe gli occhi dalla macchina da scrivere, prenderebbe la bottiglia di whiskey da sotto la scrivania, farebbe un lungo sorso e poi, tirando su le spalle, direbbe:

«Non lo so. È difficile spiegare con chiarezza le proprie emozioni. È difficile interrompere una storia di punto in bianco e offrire un’analisi puntuale dei propri sentimenti, spiegare perché sono di un certo tipo, e non di un altro. Personalmente sono un sostenitore deciso della tecnica espositiva, che considero di gran lunga superiore a quella dichiarativa. Non è particolarmente efficace quando la si usa in modo squisitamente empirico, ma col tempo finisce inevitabilmente per funzionare. Studiate a lungo le azioni di un uomo, e le sue motivazioni vi diverranno chiare.»

E poi riprenderebbe a scrivere. Ripercorrendo tutto ciò che ha fatto in quelle ultime settimane, certo, ma con uno strano modo di procedere. Non per depistare noi lettori, e neanche Lem Stukey, il poliziotto che indaga sulla morte di Ellen – moglie di Clinton – e di Deborah Chasen. Insomma, non soltanto per queste ragioni, ma soprattutto per depistare se stesso. O, ancor meglio: per provare a se stesso che egli non è quel Nothing man con cui Jim Thompson lo ha presentato al pubblico americano nel lontano 1954, per le edizioni Lion Books. Perché Jim Thompson, con Clinton Brown ci è andato giù pesante. Molto pesante. Facciamo che sei un bell’uomo, gli ha detto; e naturalmente Brownie ha annuito: va bene, avrà risposto. Facciamo che sei sposato con una donna un po’ civetta ma carina, e molto, molto innamorata di te. E anche qui Clinton Brown non avrà avuto molto da obiettare. E facciamo che di lavoro fai il giornalista. Ok. E io mi figuro Clinton Brown che sta uscendo dalla stanza di Thompson tutto contento, con l’indirizzo del “Courier” e le referenze da presentare al direttore del quotidiano. Poi, però, sulla porta, Jim Thompson, magari con una bottiglia di whiskey in mano, deve averlo richiamato. Aspetta, deve avergli detto. C’è un’altra cosa: sei stato in guerra, e durante una missione hai perso la tua virilità. Sai, una mina antiuomo… proprio lì. Clinton Brown deve essersi raggelato. E Jim Thompson, come se non fosse ancora abbastanza, ha aggiunto: il colonnello della tua missione, l’uomo che ti ha affidato quella sciagurata missione, Dave Randall, lavora anche lui per il “Courier”, e sarà il tuo capo redattore. Poi, secondo me, prima di uscire, è andata così: Thompson gli ha dato quella bottiglia di whiskey e, già sulle scale, Brownie ci si è attaccato. E da lì, non ha mai praticamente smesso. Di farsi un goccio ogni tanto intendo. Così, tutto ciò che Brownie ha fatto, l’ha fatto in uno stato di alterazione, a metà tra l’ubriaco e il sobrio. E non solo ciò che riporta nel suo resoconto, ma anche quello che ha fatto prima. Perché prima che la narrazione abbia inizio, è andato dalla moglie e l’ha lasciata, senza spiegarle il vero motivo. Senza dirle che non avrebbe più potuto fare l’amore con lei. E la moglie è stata giorni e giorni a tormentarlo, a chiedergli ragioni. Poi però non si è fatta più sentire. Finché.

Finché non ha inizio questa dannata storia. Sono passati due mesi da quando Ellen si è fatta vedere l’ultima volta, ed ecco che un giorno Lem Stukey va da Clinton Brown a dirgli che Ellen è a Pacific City. È appena arrivata, e ha affittato un cottage oltre la baia, a Rose Island. Il luogo non lascia molti dubbi: Ellen fa la prostituta. Ma non è per questo che Brownie decide di ucciderla. Il fatto è che Lem Stukey lo sta in qualche modo ricattando. È stato lui a mettersi in contatto con Ellen e a dirle di tornare, e Clinton Brown lo intuisce, e allora sfida le intemperie, perché è una serataccia, e diluvia, e il mare è molto mosso, e i traghetti sono stati cancellati. Così, servendosi di una barchetta, riesce comunque a giungere dalla moglie e, dopo qualche chiacchiera, magari qualche tenerezza, soprattutto da parte di lei, perché invece lui è piuttosto caustico, e mentre stanno a letto, lui le elargisce una bottigliata in testa (la bottiglia che Jim Thompson gli aveva dato, ricordate?) e dà fuoco al materasso. La uccide, insomma; o così sembrerebbe, perché non è che posso raccontarla tutta fino in fondo questa storia: avevo cominciato dicendo di lasciare che a raccontarla sia Brownie stesso. Cosa, tra l’altro, che sa fare molto meglio di me. Anche se Brownie gioca a mischiare le carte, anche se ci tiene a ribadire ogni volta che: «Non avevo mai avuto niente a che fare con quanto mi era accaduto. E non avevo niente a che fare con quanto mi stava accadendo adesso».

Insomma, capite la portata di questa tragedia? Un uomo che non si riconosce nella vita che conduce, nel ruolo che gli tocca rappresentare. Un non uomo che lotta strenuamente per fuggire le donne, da cui è continuamente “minacciato”; un uomo che lotta strenuamente per dimostrare la sua innocenza e, contemporaneamente, in qualche modo bislacco, la sua colpevolezza. E il tutto attraverso uno sguardo che pare un infinito commiato, e una voce beffarda, sardonica, intrisa di alcol e di profonda amarezza. Perché ogni volta che Clinton Brown parla, la sua lingua è sì tagliente: sa manipolare gli altri, soggiogarli, ma forse non si accorge di come tutto questo parlare non sia altro che un modo  per raggirare se stesso.

Qualche settimana fa, io e il mio amico Davide Fischanger eravamo in un bar di Frosinone, seduti a un tavolino, quando ci si è avvicinato un uomo. Clinton Brown. Aveva saputo dei Lettori Selvaggi, e qualche giorno prima, era partito da Pacific City per raggiungerci. Desiderava raccontarci la sua storia e che noi la raccontassimo in giro e la proponessimo alla Libreria Universitas di Sora per il 25 di ottobre. Non dovrebbe esser compito di Jim Thompson?, gli facemmo notare noi. Jim Thompson è morto, rispose. A Los Angeles, nel 1977. Lo sapevamo già, ma fu comunque un colpo. Soprattutto per lui, per Brownie, condannato a quel suo destino per l’eternità. Perché, ci disse sempre Brownie, ordinando un doppio whiskey, la letteratura ti condanna per l’eternità. Poi, mentre fuori iniziava a piovere, cominciò a raccontarci la sua storia.

Gianluca Minotti