Albert Camus – Una vita per la verità, di V. Tanase

camusVirgil Tanase

Albert Camus – Una vita per la verità

Castelvecchi 2013

Trad. dal francese di Alessandro Bresolin

€ 22,00

Nell’anno in cui si ricorda il centenario della nascita dello scrittore e filosofo francese Albert Camus, anche in Italia il panorama editoriale (seppur con un po’ di ritardo) propone alcuni interessanti contributi su di un autore la cui opera, lucida generosa sofferta, si pone ai vertici del pensiero del Novecento.

In particolare mi piace segnalarvi la biografia che l’editore Castelvecchi, acquisendo i diritti da Gallimard, ha fatto tradurre e ha pubblicato nel mese di settembre intitolata: “Albert Camus. Una vita per la verità”. L’autore è l’ intellettuale e drammaturgo romeno Virgil Tanase, dal 1977 residente in Francia.

Forse di Albert Camus non si può raccontare una sola vita, ma le numerose vite che l’autore de “Lo straniero” ha saputo incarnare, rivestire, eludere, lasciare.  In questo senso Tanase sa muoversi con molta abilità, tralasciando la mera aneddotica, per individuare alcuni elementi peculiari ricorrenti e pure sempre cangianti nella parabola esistenziale dello scrittore. Il primo di questi elementi è la povertà: Camus nacque a Mondovì, vicino ad Algeri il 7 novembre 1913, da una famiglia di coloni caduta in uno stato di indigenza in seguito alla morte del padre Lucien, avvenuta durante il primo conflitto mondiale. È quando entra al Liceo, grazie agli sforzi di convincimento operati sulla sua famiglia dal suo maestro Louis Germain, che il giovane Albert si accorge di esser povero, perché fino a quell’epoca identifica e pone la sua vita sotto il segno della felicità, ovvero dell’immediatezza della vita, della sua incontenibile energia, giocata e assaporata nelle strade di Algeri, investite da quella luce mediterranea di cui andrà alla ricerca fino al termine della sua esistenza. La povertà è una presa di consapevolezza, determina una voglia di riscatto e nello stesso tempo crea lo stile inconfondibile di Camus, il senso di riconoscenza e rispetto per il mondo dei “muti” da cui proviene, dei milioni di senza-storia sulle cui spalle, sul cui sangue si fa la Storia. La povertà è l’emblema di  una ricerca intellettuale basata sulla sobrietà e sull’esercizio critico del dubbio, ma è anche una filosofia in vita. Ed è in ultima istanza la ragione di una vita vissuta in mezzo a tanti, ma trascorsa in grande solitudine.

Ecco: chi si appresti a conoscere la vita di Camus non può tralasciare di comprendere dentro le sue fibre più remote lo scandalo e la gloria dell’essere solitari. Egli fu solo nella malattia (la tubercolosi) da cui fu colto in adolescenza, si scoprì solo nel proprio apprendistato di pensiero e di scrittura, solo nelle tante battaglie di impegno fisico e morale condotte contro i totalitarismi o i nazionalismi di ogni segno (dalla Resistenza alla questione dell’indipendenza algerina), fu solo e osteggiato dalla maggior parte di quella intelligencija francese (si veda la rottura con Sartre in seguito alla pubblicazione de “L’uomo in rivolta”) che dalla contrapposizione del mondo e della vita in due rigidi blocchi traeva la confortevole e vile sicurezza dello stare comunque dalla parte giusta. A Camus non fu risparmiata la solitudine nel successo (non gli fu perdonata la bellezza de “Lo straniero”, il grande riconoscimento di vendite ottenuto da “La peste”, l’attribuzione del premio Nobel nel 1957) e probabilmente, in una vita costellata da numerose relazioni sentimentali, si sentì solo anche nella ricerca paradossale di un Assoluto (come l’amore) che non si negasse alla ricchezza della vita e alle sue infinite possibilità.

La solitudine, temperata da periodi di creatività solidale (la passione per il teatro, il lavoro clandestino al giornale Combat durante l’occupazione tedesca) genera l’esigenza di un’onestà integrale, spietata innanzitutto verso di sé.

Leggiamo nei Taccuini: “Mi sono sforzato a vivere come tutti, a somigliare a tutti. Ho detto quel che bisognava per riunire, anche quando mi sentivo separato. E alla fine di tutto questo ci fu la catastrofe. Adesso erro tra le macerie, sono senza legge, straziato, solo e accetto di esserlo, rassegnato alla mia singolarità e alle mie infermità. E devo ricostruire una verità – dopo aver vissuto tutta la mia vita in una sorta di menzogna.”

Ecco: demolire le soluzioni confortevoli e le convenienze, ricostruire una verità. E in tutto ciò, non farsi esacerbare dal confronto con i venditori di opinioni al chilo o all’etto, o al coro degli immortali bottegai della cultura, quel coro che oggi più che mai assomiglia al belare di un gregge ben pasciuto.

L’uomo solo, Albert Camus, ritorna, mentre il cerchio della vita si chiude, al mistero della propria origine, che è il mistero di ogni origine, all’essenza, alla radice e infine -e di nuovo- alla povertà dell’essere, per giungere alla verità de “l’uomo che sarei se non fossi stato il bambino che fui”. E in questo sforzo creativo Camus si fa testimone e voce degli uomini e delle donne senza diritto di voce. Rende omaggio al silenzio di una madre analfabeta, ritrova la tomba di un padre che avrà per sempre 30 anni, mentre lui è già più vecchio:  si approssima insomma a quel “primo uomo” a cui era dedicato il romanzo-storia familiare incompiuto, il cui manoscritto gli fu trovato indosso il giorno della sua morte, il 4 gennaio 1960, avvenuta per un incidente automobilistico sulla strada tra Parigi e Lourmarin, suo rifugio di luce e silenzio.

Davide Fischanger

PS: Albert Camus è nato nello stesso giorno, nello stesso mese e nello stesso anno di mio nonno. Oltre alla data di nascita non credo avessero molto in comune tranne il fatto che fossero nati entrambi vicino al mare e alla luce, e fossero grati di questa origine. Ma ecco che questa singolare coincidenza me li rende entrambi più cari, ora che anch’io rimpiango più mare, più luce, più silenzio e cammino da solo e da solo penso e guardo, e spesso inciampo.